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CAPITOLO 1

Elayne - Congiure

Il torsolo della mela che punge, benché essa non sia avvelenata, induce alla seduzione, perpetrandosi sulle vogliose ali del tempo, anelando a profani desideri, oscuri nelle anime più cupe, protratti nel cammino dello spirito, traendo a sé invidie antiche come noci spezzate.


Gennaio e l’anno che riparte, un flusso magmatico di genti pragmatiche, in rotta verso l’avvenire. Luzburg non era così. Dalle nostre parti il nuovo anno ha inizio durante la vigilia di Samhain, il primo Novembre per noi è vita.

Gennaio e le superstizioni continuano. Un freddo dilagante aveva preso possesso del nostro piccolo borgo nebbioso e indolente. Alberi assonnati facevano largo agli spazzaneve stanchi. Le vie ghiacciate costringevano le auto a procedere lentamente, così come si smorzava il ritmo quotidiano delle cose. Un’aria pungente minacciava di soverchiare ogni pensiero, tutto si riduceva alla semplice volontà di sopravvivere.  

Dopo la pausa di Natale, gli abitanti parevano essersi risvegliati da un letargo durato secoli. La gioia perenne aveva ceduto il passo a una costante inquietudine, le persone avevano paura.

Nubi cerulee si fondevano a lance di cristallo.

Sentii bussare alla porta. «Reverendo, è lei?»

«No cara sono Leona.»

 “La moglie.” Ricordai aprendo meccanicamente.

«Salve.» Sorrisi. Era il gran giorno. Sarebbe stato tutto perfetto, finalmente mi sarei lasciata la sfortuna alle spalle. Baciai la signora Pumpkinson sulle guance. Lei mi guardò emozionata, non mi esibivo spesso in profusioni del genere.

«Come ti senti?» Chiese sbirciando fuori dalla canonica. Un cielo azzurro pallido sovrastava il paese.

«A posto.» Dissi accompagnandola all’esterno.


Per strada si staccavano le decorazioni natalizie dalle pareti e dai negozi, il mondo tornava a vestire i panni di sempre. Le auto sfrecciavano con la musica a tutto volume, provai una fitta di desiderio. Mio padre da buon meccanico ne aveva riparate per tutta la vita, senza mai potersene permettere una decente. Ma a quei tempi in famiglia eravamo in cinque, ora, ora restavo solo io.

«Andrà tutto bene vedrai.» Continuava a ripetere la signora occhialuta.

Quell pomeriggio avevo un appuntamento con lo psicologo Edwin De Santis, il quale si era gentilmente offerto di assistermi durante il caso, avendo già una mia amica in cura.

«Lo spero.» Mormorai quasi impercettibilmente, più a me stessa che a qualcuno in particolare. Leona mi aveva consigliato di vestirmi a strati per via del freddo. Io, obbedendole in parte, avevo preferito mettermi in ghingheri per l’occasione. Quel mattino sfoggiavo uno dei miei abiti migliori. Addosso serbavo ancora il tocco di una piacevole brezza notturna, quanto avrei voluto tornare a quegli istanti di silenzio, in cui solo la neve faceva da testimone.

La voce quasi nasale della mia interlocutrice continuò a farsi sentire per le centinaia di metri, forse kilometri, che separavano la canonica dal resto del paese, il paese dalla dimora del becchino. Quella donna non era granché devota, eppure non avrebbe mai acconsentito a viaggiare con la radio sintonizzata su qualche traccia Trap o HipHop. I canali radiofonici su cui riuscivamo a sintonizzarci trattavano di argomenti mediocri, inducevano al sonno piuttosto che alla veglia. Per questo bastavano il freddo, il mio cognome e la nostra fatidica meta.

Quando avevamo messo in moto Leona mi era sembrata vagamente in soggezione. La casa del becchino si trovava in un luogo più isolato rispetto alla canonica, certo non aiutava. Cercai di immaginare lo stile architettonico, le decorazioni, dato che non ci ero mai stata. Dimenticando solo le persone.

Tra le mani mi rigirai l’Iphone 4 che tenevo ormai da molti anni, la moglie del reverendo non si era dimostrata prodiga di doni concreti oltre le parole. Un tetto sopra la testa non mi bastava? Pensai a Emily. Il ricordo del suo viso mi restituì un barlume di sollievo, allontanando la netta sensazione di essere oppressa, in trappola.

 “Porta pazienza.” Mi dissi scrutando il buio corteo di alberi cui ci stavamo avvicinando. Man mano che avanzavamo nella gelida luce del mattino vedevo Luzburg allontanarsi, divenire un pallido ricordo. Ci fermammo poco distanti da un basso cancello in ferro battuto.

A quell punto udii una portiera aprirsi e richiudersi alle mie spalle. Passo dopo passo mi avvicinai all’entrata.

«Lei non viene?» Domandai alla signora Pumpkinson.

«Oh no, va pure. Sanno già che saresti venuta, mio marito li ha avvisati.» Scosse la mano sinistra in segno di saluto, giocandomi un tiro mancino. «Ah una cosa...» Fece per sistemarsi la frangetta bionda che le stava coprendo gli occhiali. «Accetta quello che ti danno da mangiare e non rifiutare nulla, sii cortese e non fare domande. D’accordo?» Annuii in risposta, lei lo prese come un segno di assenso e, una volta in macchina, si allontanò, svanendo tra le ombre di quell’idillio color di zaffiro.

I fiocchi attorno erano attecchiti silenziosamente al suolo, in alcuni punti del ghiaccio sporco strideva nel contrasto con il candore del morbido manto ormai saturo delle mie impronte. Gli stivali che affondavano nella neve non mi persi d’animo, arrancai fino alla porta, decisa a premere il campanello, a mostrarmi gentile, come Elayne Snayfried sarebbe dovuta essere. Cominciava a tirare vento così mi rassettai la sciarpa e i capelli prima di bussare, il mio tocco non aveva sortito risposta. Il cancello capii era stato lasciato aperto in via del tutto eccezionale. La faccenda delle sette sataniche per fortuna era rimasta confinata nei social, in genere non vi dedicavano più neppure servizi in tv. Evidentemente da quelle parti non era così. Singhiozzai aggredita dal freddo, bussando più forte. Le tapparelle in cima erano chiuse, le tende tirate, il mondo intero pareva volermi evitare. Da rozzi quali erano pensavano forse che attirassi il malocchio?

Cominciai a gridare. «Hey, c’è qualcuno? Sono Elayne! Apritemi per favore.» Tremavo per la morsa del gelo, sfregandomi le mani ripetutamente. Come potevano ignorarmi in questo modo? D’istinto sferrai un calcio allo stipite, incurante dei segni che avrei potuto lasciare. Con dita malferme presi il cellulare intenzionata a chiamare la moglie del pastore quando... la porta si aprì.


«Buongiorno.» Bofonchiò una voce, immediatamente seguita da una sagoma ingombrante. Doveva essere la nonna dei Rikven, nonché madre del becchino. Ma delle mie coetanee, nemmeno l’ombra.

Subito si spostò invitandomi ad entrare. Risposi al saluto sfoggiando uno dei miei ingenui sorrisi, feci del mio meglio per risultare convincente.

Mentre la matrona si faceva da parte, avanzai nel fievole chiarore invernale entrando in casa. Da qualche parte risuonava il suono leggiadro di una sinfonia melanconica.

«Chi è?» Sentii strillare dall’alto vicino alla ringhiera.

«Venite tutti giù, questa è Elayne. Denise le pantofole.» Ordinò la nonna imperiosa, indossava un massiccio pullover di lana grigia che le conferiva un sedere enorme. Soffocai una risatina.

«Quale Elayne?» Domandò la bambina imperterrita. “Ma, è scura.” Rilevai in silenzio. Scendendo dalle scale distinsi chiaramente i suoi crespi capelli afro confondersi con un viso da mulatta.

«Questa è Denise.» Mi informò la nonna stropicciando i capelli della piccola e indicandomi la cucina, la bimba ci seguì svogliatamente.

«Perché questa musica?»

«Qui non ci prendiamo cura solo dei vivi.» Esordì Denise in tono enigmatico. «Non lo percepisci nell’oscurità? Il suo flebile respiro?» Mi avventurai al loro fianco in quel luogo ameno e privo di allegria.

Girovagando per la casa finii per esplorarne le stanze, fermandomi davanti a una in particolare. Era occupata. La porta socchiusa lasciava intravedere una giovane snella che in reggiseno si passava le dita sull’addome inesistente. I pantaloni chiari del suo pigiama mettevano in risalto la sua evanescenza. Era talmente magra che vi sarei potuta passare attraverso. Simile a un ectoplasma dai capelli rossosangue si contemplava nello specchio, mentre io la spiavo indisturbata. Quando si sedette sul letto vidi il suo viso, come pareva ansiosa, inconsolabile nel tormento. Indossato un pesante maglione in grado di darle un minimo di consistenza scese le scale senza accorgersi di me, che intanto mi ero fatta indietro appiattendomi contro una parete. Camminava come trasognata scendendo i foschi gradini di quella dimora così linda. Probabilmente portavo ai piedi proprio le sue pantofole, furtiva la seguii senza farmi vedere. La nonna e i bambini stavano preparando il latte in cucina, lasciandomi campo libero.

La ragazza dall’aspetto di tredicenne, benché fosse dovuta apparirmi adulta, si inginocchiò davanti a un quadro, l’unico in tutta la casa, mormorando strane parole, talmente piano da non permettermi di udire cosa stesse dicendo. Sembrava affranta e vittima del dispiacere. Capii che quel momento doveva essere un rito, nessuno si diede il disturbo di interrompere quel suo sinistro convegno con il dipinto. La figura ritratta era tanto bella da togliere il fiato. Almeno lei, la figlia maggiore del becchino, rimase impietrita, in silenziosa contemplazione.

Diedi un ultimo sguardo alla cupa dimora. Emily me ne aveva “parlato” in varie occasioni, ma non mi sarei mai immaginata un luogo del genere. Qualcosa non andava.

Quasi per caso mi ritrovai di nuovo di fronte alla cucina, la sinfonia malinconica stava giunngendo alla conclusione e nessuno pareva curarsene, ad eccezione di me e della ragazza anoressica.

La nonna mi accolse con gioia, due nuovi bambini, sapevo fratelli dell’ectoplasma in corridoio, mi vennero incontro festosi: un bimbo biondo miele di sei o sette anni con la gemella 

«Ciao, io sono Roland.» Si presentò lui.

«E io Clorinde.» Fece l’altra. Quant’erano buffi in quegli abiti troppo larghi, mi ricordavano due piccoli soldatini di stagno.«E io Clorinde.» Fece l’altra. Quant’erano buffi in quegli abiti troppo larghi, mi ricordavano due piccoli soldatini di stagno.

«E tu sei quella del telegiornale!» Esclamò il biondino.

«Che modi, abbiate rispetto.» Li redarguì la nonna lasciandosi sfuggire rumorosamente una tazza nel lavandino. «Ne vuoi un po’ cara?» Mi chiese indicando il cartone del latte, rifiutai sorridendo con dolcezza.

«L’amica di Emily.» Rilevò la bambina mulatta, Denise. «Ma senti hai visto Volonté?» Chiese ammorbidendo la tensione.

«Chi?»

«No non l’hai vista.» Concluse per me sbuffando in direzione delle fiammelle del gas.

«È nostra sorella, più magra dello stecco di un ghiacciolo, tutto il contrario di Céline.» Mi spiegò Roland.

«È vero è vero. Ma proprio tutto.» Aggiunse Clorinde agitando il cucchiaino dei Nuesly. Era la prima volta che assistevo a una colazione alla francese. Feci tesoro di quei momenti, la pace che irradiava quel loro idioma mentre discutevano di questioni superflue, la calma che ispiravano i dolci sorrisi, il calore che si propagava dalla lampada, la cupa atmosfera all’esterno, mi sembrava di vivere un sogno. L’incantesimo si infranse.

«Perdona i nostri modi, di certo non avrai nostalgia del camino spero, non vantiamo tutti gli agi della casa del reverendo, ma d’altronde non ci vivi da tanto sbaglio?» Guardai la nonna, che cosa stava cercando di dirmi?

«No.» Convenni prendendo posto accanto ai bambini. «Solo due mesi, tre, da Ottobre.» Osservando quella creatura un po’ avvizzita ripensai a mia nonna in coma, trattenni a stento un brivido di piacere.

«Ah.» Fece lei dandosi una pulita nel grembiule, tutti in quella casa insistevano ad avere qualcosa di sbagliato, sembravano assumere pose artificiali, li pervadeva come una allegria forzata. “C’è qualcosa che non va?” Avrei voluto chiedere.

Nonna Rikven parve intercettare quel mio pensiero perché si affrettò a dirmi: «Ti prego di scusare i nostri modi Elayne, stiamo ancora cercando di digerire un lutto recente.» E rivelando quel dilemma fondamentale il viso le si rabbuiò, distolse in fretta lo sguardo soffocando qualche lacrima nella manica del grembiule.

«Recentissimo.» Ribadì la bambina bionda, Clorinde, perfino lei aveva abbandonato il tono scherzoso di poco prima. Il gemellino, come a sottolineare le parole della nonna deglutì sonoramente.

Un velo di tristezza si era posato su di noi quando una nuova ragazza fece la sua comparsa: era alta, superba, portava una lunga giacca nera su un paio di pantaloni pesanti color carminio. Serici boccoli bruni ne incorniciavano il viso pallido e ovale. I bambini non le badarono, la nonna in silenzio le fece posto tra il forno e il frigo affinché potesse prepararsi da sola la colazione. Prima di sedersi mi rivolse uno sguardo penetrante, notai come non si fosse tolta la giacca entrando. Per quel che ne sapevo avrebbe potuto essere coetanea dell’ectoplasma dai capelli rossi.

Ben presto la nuova arrivata si fece da parte appoggiandosi al davanzale della finestra, la cucina abitabile non poteva accogliere più di un tot di persone, iniziavamo a stare stretti.

«Lei è Ginevra.» Mi sussurrò all’orecchio Clorinde. «La figlia di nostro padre.» In risposta le rivolsi uno sguardo confuso, poi capii.

Il gemello si esibì in un ruttino tamburellandosi sullo stomaco. La nonna parve apprezzare.

Ginevra fece di tutto per confondersi con il mobilio circostante, infine, senza più vie di fuga mi rivolse un timido cenno di saluto. Io la imitai.

«Tutti a lavarsi i denti ora.» Disse evasiva, sfoggiando un timbro melodioso, unito a labbra sottili, ma austere, spronò i bambini ad obbedirle, come appariva autorevole la sua voce.

Ciò mi spinse a riprendere la parola. «Ho visto la loro sorella prima nel corridoio, non viene a mangiare?» Domandai alla nonna che intanto si stava dando da fare nel ripulire il tavolo vandalizzato dai gemellini. Fuori il tempo non stava migliorando, neppure un raggio di sole. Non gravavano nubi minacciose sulle nostre teste, il cielo non accennava a schiarirsi., l’azzurro non lo rendeva sereno.

«Lei non mangia mai.» Mi spiegò Ginevra. «È fatta così. Ora scusatemi ma devo tornare in città, il dovere mi chiama.»

«A Shyville?» Chiesi incapace di trattenermi.

«No, a Christ Hanton, vado nella capitale.»

Una volta che ebbe recuperati stivali e cappellino, la borsa trandy in spalla, tornai a rivolgermi alla nonna. «In quanti siete qui?»

Non avrei dovuto fare domande ma neanche potevo restare lì, impalata, ferma come un soprammobile a cinguettare le stesse melodie, mi stavo solo sforzando di intavolare una conversazione.

«Aspetta che ci conto.» Quel “ci” non mi piacque affatto. «Compresa tu siamo in... vediamo, in tredici.» Senza lasciarmi il tempo di ribattere passò ad elencare i membri di quella disgraziata famiglia usa alla compagnia dei morti. «Io, Denise, Clorinde, Roland, Volonté, Ginevra, Juancarlos, Céline, Brenda, Richard, Emmanuel, mia suocera, con te tredici.»

«Ma, ma...» Pigolai sconcertata. «Io non...»

«Come non te l’hanno detto?» La nonna fu lì lì per mettere il muso, potevo già vedere quella sua brutta faccia contrarsi in una grande O di sgomento. «Noi ci hanno avvisati, entro domani le tue valige si trasferiranno qui. Sei una di noi ora.» Poi, come a voler sottolineare le sue parole soggiunse: «Tuo padre è in carcere, Possiamo non biasimarlo dopo quello che ti ha fatto?» Percepii una nota di sdegno nella sua voce. «Il 2018 è stato proprio un anno orribile. Tragedia dopo tragedia. Te l’ho detto, qui non sei l’unica ad aver sofferto. Anche noi abbiamo rinunciato a delle persone care, anche un cane.» Indicò qualcosa poco prima del salotto, ci stavamo spostando verso il sofa. Fu solo a quel punto che notai una cuccia vuota. «Il lettino di Harol. Se lo sono portati via, maledetti seguaci del demonio.» Provai un brivido. Mi guardai freneticamente intorno, le finestre erano chiuse, molte delle porte anche. La nonna si accorse del cambiamento avvenuto in me. «Ah, forse non avrei dovuto dirlo.» Bofonchiò.

«Avreste potuto andare alla polizia, denunciare il fatto.» Replicai stringendomi le mani sotto le ascelle. In quella casa i caloriferi restavano spesso abbassati, probabilmente la padrona di casa era avara. A governare lì, ormai l’avevo capito, era Brenda, la moglie del becchino, non lui. Al solo nominarla chiunque nelle vicinanze si zittiva, perdeva il filo del discorso, doveva trattarsi di una donna veramente terribile.

Mentre ci accomodavamo nuovamente in cucina, la nonna si era dimenticata di spegnere il gas per la tisana di Volonté, azzardai l’unica vera domanda che mi frullava in testa dal primo istante in cui avevo messo piede in quella dimora.

«Prima i suoi nipoti hanno menzionato una persona, posso sapere gentilmente chi è il signor Litwick?» La tazza scivolò dalle mani della nonna finendo per terra con un gran fracasso, il silenzio della casa rendeva ogni piccolo rumore simile a uno scoppio di tuono. Lei quasi perse l’equilibrio, allarmata, mentre io non battei ciglio. Quelle menti pestifere presto avrebbero fatto ritorno, stanchi dei videogame o dei compiti delle vacanze si sarebbero approfitatti di me.

«Ecco, ecco...» Balbettò la nonna riacquisendo un minimo di padronanza di sé. «Davvero non ne sai nulla?» Si interruppe soffiandosi il naso.

«”Al signor Litwick piace giocare con le persone”.» Ripetei le parole di Denise. «”Mai cercare il Re Degli Elfi, se ti trova sono guai”.»

La nonna sollevata si concesse un vago sorriso, prese posto davanti a me lasciando perdere la tisana della anoressica. «Il signor Litwick? Un amico di Yvonne.»

«Quella Yvonne?» Puntai fermamente un dito verso il notiziario delle otto. «Yvonne Lermié?» Chiesi sgranando gli occhi, dimentica per un attimo della posa che Elayne Snayfried avrebbe dovuto mantenere.

«Esatto! Proprio lei. Ora evita queste mura come la peste, perché le ricordano Volonté. Non può tornare da dove si trova.»

«Ma si amavano?»

«Tu credi all’Amore Elayne?» Non dissi nulla invitandola in silenzio a proseguire. «No questa è una storia di ambizione e tormento, di equivoci e morte.» Quelle parole mi colpirono grandemente, ebbi in seguito occasione di riflettere a lungo sul significato delle sue sinistre verità. La pausa fu interrotta all’ingresso dei gemellini, che trascinarono via un pelouche di un piccolo panda con sé. «Quel ragazzo l’ha influenzata, ora è divenuta sua schiava, sospesa tra il nostro mondo e il suo. Almeno questa è la versione di mia nipote.» Mi spiegò la nonna una volta che i bambini si furono allontanati.

Continuai a fissare stancamente la tv. Stavo pensando ai miei interventi sul telegiornale locale, a Shyville, dato che il nostro paesino, talmente povero e dimenticato, non avrebbe potuto permetterselo. Cominciavo a chiedermi se ne valesse veramente la pena. Dopo tutto, chi guardava più la tv? Ormai le persone passavano il tempo sui social, YouTube, perfino lei, Mademoiselle Lermié, che ancora sorrideva da una foto nel piccolo schermo.

«Campagna anti-Bradzva.» Lessi ad alta voce, nonna Jo annuì con decisione.

«La nostra Yvonne ne ha fatta di strada.» E qui la nonna si profuse in miriadi e miriadi di aneddoti e rumors piccanti sulla damigella d’onore di tutto lo Stato. Accettando quel ruolo di rilievo quella scialba provinciale si era consacrata al vero culto della bellezza, il proprio. E ora estendeva la sua influenza inarrestabile, né il lutto presente, né le ambiguità del passato avrebbero potuto porvi rimedio.

«Hey guardate ho visto qualcosa!» Strillò Denise slanciandosi verso la finestra. Istintivamente tutti la seguimmo con lo sguardo.

«È solo il riflesso di Elayne.» Li rassicurò la nonna con voce querula. Mi trovavo vicino al frigo e tenendolo aperto. Mi avvicinai a Denise mandando via la luce gialla. Feci finta di niente ignorando la nonna mentre redarguiva i piccoli. Continuai a osservare dal vetro. “Emily che cosa ci fai qui?” Mossi le labbra senza parlare. Per un momento non seppi se tornare alla sedia distraendo la loro attenzione o se restare appoggiata al davanzale celando la mia amica da sguardi indiscreti. Cosa l’aveva spinta a girovagare per la foresta ammantata di neve e mistero?

«Magari è la strega.» Sussurrò Roland. «Sono giorni che...»

«Non c’è nessuna strega.» Lo interruppe la nonna meccanicamente.

«E invece sì!» Gridò il bambino. «Siamo andati il mese scorso a trovare una strega e l’abbiamo vista bruciare, c’era anche la figlia del prete.»

 “Emily.” Pensai.

«Ma tu non te lo ricordi.» Continuò il bimbo. «Perché sei rimasta qui con la bisnonna.» Alla replica del nipote la vecchia tacque.

«L’abbiamo vista nella foresta.» Spiegò Clorinde. «Non quella morta, lei aveva una casa, peccato che ora non ha neanche una tomba.» Rise, subito imitata da Roland.

Denise non si unì al giubilo dei cugini indemoniati. Dopo un po’ bisbigliò, come impaurita dal pensiero di qualcuno che li spiava dalla finestra. «Questa è diversa, è più giovane, ha i capelli fulvi, non si fa vedere spesso ma noi sappiamo che gira intorno alla casa.» La nonna si portò una mano al cuore e non si permise di negare.

Con il trascorrere dei minuti capii come i gemellini fossero cattivi. Quei due piccoli insolenti godevano nel mettere gli altri a disagio.

I membri della famiglia parlavano dei funerali come se nulla fosse, eccezion fatta per uno ancora non avvenuto, non sembravano accorgersi di quanto apparissero grotteschi ai miei occhi.

A un certo punto, quando in cucina tornammo ad essere solo io e la nonna, chiesi: «Lei crede nel Diavolo?»

Ciò non parve colpirla. «Mia cara il mondo è un luogo strano e meraviglioso. Io non ho mai avuto modo di viaggiare in lungo e in largo, ora sai devo badare a mia suocera che come hai visto è costretta a letto invasa dai tubi. Quello che non sopporto di questo nostro grande piccolo mondo è come le persone facciano male ad altre persone, direttamente, indirettamente, consapevolmente, sbadatamente, è tutto un susseguirsi di violenza, fisica, psicologica, velata. Il tuo amico reverendo ti dirà che il Diavolo si nasconde tra noi: “vuole solo farci credere che non esiste”. Ma io ti chiedo, con che coraggio possiamo noi, insulsi mortali, pretendere di conoscere ogni cosa di ciò che ci circonda? Possiamo illuderci, cantare vittoria, sopportare la sconfitta, ma non possiamo mettere una mano sul fuoco e guardarla bruciare in nome di una qualunque convinzione, giusta o sbagliata che sia.» Nonna Jo pareva trasfigurata nel mediocre maglione di lana. Da qualche parte dentro di me cominciai ad ammirarla. Pensai nuovamente a mia nonna, mi venne da ridere.

«Chissà quante cose che ha visto, anche solo qui, a Luzburg, o Shyville. Io non ero mai andata oltre prima di Ottobre, poi sono stata da uno psicologo in una nuova città, a Neathburg. è stato tutto così nuovo per me, sentivo come una grande felicità inebriarmi. Non mi importava se erano stati brutti avvenimenti a condurmi a questo, sapevo solo di tornare a vivere.» Bruscamente mi fermai, lo spettro di un sorriso che mi aleggiava sul volto. Cosa mi aveva spinta a confidarmi in quel modo a quella sconosciuta? A pensarci bene, da un paio di mesi era quello che sapevo fare meglio.

«Io non so se queste sette cerchino il diavolo o se semplicemente si divertano a fare i criminali, quello che so è che rendono il mondo un luogo oscuro, degradato, avvolto dal male. Il male è nelle persone. In noi esseri umani si manifesta in tutto il suo potere, sta a noi saperci difendere.» In quel momento capii che davanti a lei non vedeva il mio viso, ma un altro. Compresi come avesse già affrontato quel discorso con qualcuno, magari vi era tornata a distanza di anni, che stesse ripetendo le parole di un tempo?

La porta della cucina si aprì. A pochi passi da noi si era fermata in piedi la figlia maggiore del beccamorto, Volonté, così magra, così pallida, così tetra e melanconica.

la nonna concluse guardandoci entrambe dal davanzale della finestra. «Una casa così antica, col tempo diventa una creatura viva, comincia a trattenere le cose: alcune buone, altre cattive, e altre ancora su cui dovrebbe calare un eterno silenzio.» La ragazza fece un passo indietro, trafitta dalla sua voce. Io non ne fui turbata, al contrario di lei non mi misi a tremare.

Non indossava più il pesante maglione che le avevo visto la mattina presto, portava invece una maglietta bianca, candida quasi quanto la neve che vorticava là fuori.

Per fortuna giunsero i bambini, invadendo per la terza volta la stanza come uno sciame di api laboriose, instancabili. Non so perché ma alla vista dei gemellini con la cuginetta, le parole della loro nonna rintoccarono nella mia mente simili a una campana a morto. Volonté chiese di uscire.

«Assolutamente no.» Negò la madre di suo padre agitando il testone con forza, gli occhiali che mandavano barbagli di luce fioca a ogni movimento. «Sono oltre due settimane che hai preso questo vizio, ora basta. Ti prenderai un malanno.» Ma quell’esile giglio aveva già una mano infilata nella giacca, in fila nell’ingresso stavano le nostre scarpe, scelse con cura il suo paio di stivali logori, spalancò la porta e svanì nella tormenta.

La nonna starnutì. «Ecco gli svantaggi di essere in pensione. Quella ingrata dovrebbe trovarsi un lavoro e non girovagare ogni santo giorno nella foresta!» Sbraitò rivolta ai gemellini. «Fate qualcosa a vostra sorella, riportatela alla ragione.»

«Le serve Yvonne!» Urlarono loro in coro.

«Beh ora abbiamo soltanto Elayne.» Puntualizzò Denise. Feci una smorfia dirigendomi al bagno, i wafer che mi avevano dato stavano avendo un cattivo effetto, sentii lo stomaco brontolare, sperai di non lasciar tracce. Quella famiglia sembrava essere schiava dell’ordine, non c’era un millimetro di pavimento o parete che non fosse pulito, neppure il soffitto recava una ragnatela. Mi immaginai il signor Rikven in bilico su una scala, senza il completo da lavoro, intento a controllare con una lente di ingrandimento gigantesca l’eventuale presenza di ragni o intrusi di ogni sorta. In quel momento, l’intrusa ero io.

Quando il cellulare squillò fu per me una salvezza. La permanenza in quella casa iniziava già a farsi monotona. Per quante giornate ancora la nonna avrebbe saputo imbastire simili discorsi ad effetto? Esisteva un limite alla frenesia dei bambini? Verso mezogiorno sarebbero probabilmente tornati Brenda col passeggino, suo marito dal lavoro, Céline col fidanzato, Ginevra, Volonté... Dovevo svignarmela, a qualunque costo. Ora che l’appuntamento dallo psicologo era stato anticipato mi si presentava l’occasione. 

Pensai a radunare le mie cose: la giacca appesa vicino alla porta, la sciarpa lasciata ad asciugare sul calorifero, la pazienza ormai giunta al limite. Scroccai da nonna Rikven un paio di biglietti del treno, diretta a Neathburg.


Era tempo di cambiare aria. In piedi in cerca di uno scompartimento scrutavo le diafane ombre di quel mattino misterioso farsi sempre meno nitide, oscurate dalle gocce di pioggia, il nevischio che gradualmente si tramutava in acqua, per poi cessare del tutto. Merito dello smog, del surriscaldamento globale, del brulichio continuo in città. Neathburg non era che una piacevole provincia sul fiume Hein, eppure, si viveva tutto un altro mondo. La zona era da ritenersi più vicina alle due grandi metropoli, osservai la mappa in stazione individuando Christ Hanton e Cinderville. Poco lontano si distingueva Neathburg, illuminata da un pallino verde a significare che mi trovavo nel posto giusto. Poi venivano alcuni paesini sparsi per lo Stato, tra cui Luzburg con la sua tenebra; altre città, in particolare Silberlingen, sul mare, la Venezia gotica del nord. Shyville spiccava per la grande presenza di un verde più intenso e scuro, la grande foresta che partiva proprio dalla dimora del becchino, invisibile sulla mappa topografica. Con un dito pigiai su Neathburg dando il benvenuto alla modernità: la città si espanse davanti a me rivelando vie, ristoranti, uffici, parchi, musei... individuai presto il caratteristico palazzo adibito a studio del dottor De Santis, lo toccai. Ed ecco una bellissima linea scaturire magicamente dalla stazione giungendo fino al luogo desiderato. Certo avrei potuto guardarlo su Google Maps ma preferii scattare una foto al tabellone prima di mettermi in viaggio a piedi. Non distava molto, una volta memorizzate le vie Neathburg si mostrava meno contorta perfino del mio paesino. Non la conoscevo come le mie tasche e tuttavia scorgevo come una luce invisibile propagarsi dall’edificio cui ero diretta.

Prima di andare avvisai il detective Lownden e il reverendo, ci saremmo visti fuori dallo studio del medico in modo che potessero confrontarsi con lui. Il caso Snayfried non si era chiuso come speravano.

Quando fu il momento di rivederli mi apparvero tutti e tre come un gruppo di marinai su un mare in burrasca, intenti ad issare le vele pur di restare a galla, ciascuno con la propria zavorra e il proprio remo, si sarebbero fatti battaglia spingendosi l’un l’altro verso l’abisso piuttosto che accettare un’esistenza coesa. Godevo dei loro conflitti puerili, d’altronde non ero stata io a metterli contro? Di certo ne ero la causa. Chissà perché questo mi lasciava indifferente. Il detective, un uomo sui ventotto di nome Johannes Lownden, conosceva mio padre da quando ero bambina e aveva preso a cuore il mio caso, i corti capelli castano scuro che si posavano su una fronte bassa nell’ombra del sospetto, lo sguardo strabico non aiutava, così come gli abiti scuri e grigi, non aveva stile. La sua auto faceva pena. Il reverendo, tutto in fermento nel divulgare la parola di Dio, il bianco colletto inamidato a nascondere un collo troppo esile, facile da spezzare, il viso ovino con un paio di occhi scialbi, il naso a patata, i capelli smorti abbinati al completo color del giaietto, le sue nere allusioni, portava sulle labbra il sapore dei discorsi di nonna Rikven. E infine, il medico della mente, Edwin De Santis, un giovane idolo incarnato: i folti capelli di un piacevole castano dorato ravvivavano la cupa atmosfera del luogo, gli occhi profondi blu notte illuminavano l’altrui tetraggine con la loro gaiezza, portava abiti raffinati di color blu scuro, in tinta con lo sguardo; la voce eloquente ma serena, non parlava a macchinetta come l’ossessionato detective Lownden o il patetico reverendo Pumpkinson, no, il medico della mente sapeva il fatto suo, donava a ogni parola un grande senso di libertà, irradiando molta assennatezza dalla sua giovane indole, aveva credo trentaquattro anni, ma sembrava un ragazzino, fisicamente e nel carattere, a differenza del pastore non aveva un pomo d’adamo accentuato, la voce suadente non mirava a influenzare ma piuttosto, a incentivare una reciproca comprensione. Ci erano voluti due mesi affinché comprendessi tutto questo, degli uni e degli altri, solo il dottore continuava ad esercitare un certo fascino su di me. contemplavo nel profilo del suo naso lo spettro di quella magnetica serenità che doveva essersi lasciato alle spalle, come appariva determinato, mosso quasi da un cupo fervore a noi sconosciuto, indecifrabile, sinistro geroglifico in una mente geniale. Insieme simboleggiavano la scienza, la fede e il lume della ragione. E benché si trattasse comunque di luce, lo psicoanalista parve avere la meglio. 

I tre si erano messi a discutere nel parcheggio dimenticandosi che io fossi lì, a portata d’orecchio. L’intervento di ciascuno portava o sottraeva qualcosa al discorso degli altri, un mix di rassicurazioni necessarie per quegli spiriti inquieti. Mi chiesi cosa vi fosse in me di così speciale da tenere lì per svariate ore di molte settimane mettendosi in gioco: le mie disgrazie dovevano averli coinvolti, oppure ne traevano origine tematiche di più ampia portata. Solo il medico non si esprimeva in tutta onestà, dove erano finite la trasparenza e la fiducia reciproca? Cosa lo stava spingendo a mantenere il mio segreto?

Stanca di aspettare mi ero seduta sul bordo di un muretto non ricoperto di neve. L’edificio neogotico alle nostre spalle si stagliava pittorescamente a evidenziare lo status di colui che lo possedeva. Tornai con la mente a quello scambio di parole avvenuto neanche mezz’ora prima, alla seduta.

Lo psicologo si protese verso di me. «Il frutto proibito della conoscenza ha un retrogusto amaro. Tu e io ne subiamo il prezzo, conosciamo la verità senza poter rendere gli altri partecipi.» Bisbigliò. «Per quasi due mesi sono stato al tuo gioco, gli psicopatici, che creature straordinarie, impossibili da imbrigliare e altrettanto ardui da decifrare. Caso vuole...» E qui alzò la voce tornando ad appoggiarsi allo schienale della sedia girevole, mentre una strana commozione prendeva possesso di lui. »Che io abbia avuto a che fare con uno di voi molto di recente, le dinamiche possono essere differenti oh questo lo so, ma lo scopo rimane uno e uno soltanto: il raggiro, la volontà di mantenere vivo un meccanismo. E io non sono qui per farmi prendere per il culo.»

«Dottor De Santis come può dire questo?» Accavallai le gambe sotto la scrivania.

«Non fingerti ingenua, so cosa sei, una manipolatrice. Non credere di essere la prima paziente a portare una maschera che mi trovo davanti. E non pensare neanche per un istante di potermi raggirare lurida sgualdrina, potrai abbindolare quel detective e l’uomo di chiesa, ma non me.» Affermò recuperando il controllo. Non mi sembrava più il docile giocherellone, sempre con la battuta pronta e il viso ridente.

Misi il broncio senza ribattere, guardai in cagnesco il luminare. Uno strano sorriso gli increspò il volto rivelando a pieno la sua sofferenza. «Chi ti crederà Ed?» Domandai scegliendo un tono di voce basso e penetrante.

«Il sacrificio di tuo padre, il cappio di tuo fratello, la caduta di tua nonna, la tomba di tua madre... Non sono che attimi isolati del tuo tempo, aiutami a capirti Elayne.» Terminò implorando. Sottintendeva una richiesta di misericordia e perdono, voleva qualcosa da me. Portò lo sguardo su una fotografia graziosamente incorniciata, era sul punto di commuoversi, ancora.

«E non vuoi tentare?» Domandai spezzando quel patetico momento di autocommiserazione. «Loro ti ascolteranno. Non vuoi tradirmi dottore?» Le formalità erano finite nel cesso, Edwin battè un pugno sulla scrivania perdendo le staffe, digrignò i denti impotente.

«A ogni familiare che hai perso ti sei avvicinata al “trono”, avanzando nella “successione” a qualsiasi costo pur di raggiungere la libertà. Ti sei fatta strada nel mondo rivelandoti recidiva, spietata, aiutami a capirti.» Ripeté tornando ad assumere una posa afflitta.

«E che cosa ci guadagno?» Mi stiracchiai sulla sedia intrecciando le mani dietro la nuca, vidi i suoi occhi soffermarsi sul mio seno, la scollatura a V attirava il suo sguardo. Poi però mi accorsi di come la mano stesse brancolando in cerca della fotografia, afferrata la cornice se la portò al petto soffocando un singhiozzo.

«Il mio silenzio.» Rispose con fermezza. «Starò al tuo gioco se tu farai il mio.»

«È una minaccia?»

«Un invito a riflettere.» Prese un gran respiro e disse: «Ci sono cose che non so e che devo scoprire, insieme adempiremo a ciò in cui la polizia ha fallito.»

«Stai parlando di me?» Sussurrai spazientita.

Il pavimento parve tremare sotto i suoi piedi, afferrò le estremità del suo angolo di scrivania piegando il viso in avanti, negli occhi gli danzava una luce oscura. «Ho perso un amico, per colpa di persone come te, ora abbiamo un accordo e mi devi un favore. Aiutami a trovarlo.»

«È così importante per te?» Cominciavo ad avere l’impressione che fosse tutto un inganno. Ma la sua espressione non lasciava spazio a dubbi. Edwin non mentiva.

«Non puoi averne idea.» Mormorò alzandosi e recandosi alla finestra, spalancò le tende rivelando le gocce di pioggia che striavano i vetri.

Alla vista dei fanali di un’auto fui riportata al presente. Il medico della psiche stava reggendo il gioco. Continuavo a chiedermi cosa lo avesse spinto a consegnarmi un fogliettino con segnate le credenziali per un profilo fake su Messenger per poter interagire con lui nella massima segretezza. Il giovane solare di metà autunno si era tramutato nell’ombra di se stesso. Sorprendendo tutti quanti mi prese con sé offrendomi il braccio sotto l’ombrello, mi invitò a fare due passi.

«Ricorda la tua promessa.»

«E se ti facessi uccidere?» Gli sibilai all’orecchio, non essendo molto alto non mi occorreva alzarmi in punta di piedi.

Lo vidi trattenere il respiro. «Sarebbe per me una benedizione, minacciami con la vita.»

«Dimmi cosa devo fare.» Replicai spiando con la coda dell’occhio gli altri due procedere dietro di noi.

«Continua a fingerti innocente, sii la solita pecorella smarrita. E intanto...» Proseguì staccandosi da me. «Cercherai una cosa per me.» Poi, cambiando tono. «Su un server da qualche parte c’è un certo file con un certo nome, ci sono scritte delle cose su di te: che dici tante bugie, che fai la brava solo quando ti conviene, celando metodicamente dominio sociale e manie di grandezza; in altre parole che narcisismo, macchiavellismo e psicopatia compongono la tua personalità in quella che comunemente si chiama Triade Oscura. Stavi per compiere dei passi falsi uscendo allo scoperto.» Mi mise in guardia abbandonando quella nuova superbia. «Non sei così pronta come ritieni di essere.» Sorrise facendo un passo indietro, io mantenni l’aria di ragazza premurosa e compassionevole, per tutto il tempo.


Quel pomeriggio le sfumature azzurrine del cielo lasciarono definitivamente spazio alle cupe tinte invernali, la neve in alcuni tratti si era sciolta, in altri invece cominciava a ghiacciarsi. Le persone alle prese con la brina sui vetri delle auto somigliavano a mosche impigliate in ragnatele di ghiaccio. Il medico aveva avuto ragione, c’erano dei tasselli del puzzle su cui presto gli scarafaggi avrebbero iniziato a porsi domande.

Fu anche per questo che mi diedi appuntamento con il detective Lownden a Luzburg dopo aver visto il reverendo nella chiesa.

Per il paese circolavano un paio di individui mai visti. Che le storie di sette, demoni, streghe e fantasmi stessero attirando il turismo in inverno?

Mi arrestai poco lontano da una auto fiammeggiante, il rosso si notava anche a decine di metri. Era una troupe televisiva.


Un ragazzo ultraventenne dai capelli bronzei, l’incarnato marmoreo, i modi rassicuranti e ben vestito stava illustrando una serie di comandi ai suoi collaboratori. Ci trovavamo su una di quelle strade non di rado prese dal traffico, all’intersezione tra Neathburg e Shyville, con Luzburg di mezzo.

«La Video News è una fiorente compagnia di riprese giornalistiche.» Esordì catturando l’attenzione di tutti. «Assicuratevi di seguire sempre le mie indicazioni e porterete a termine con successo il vostro programma di tirocinio.»

Un gruppo variegato di persone gli stava intorno assentendo ad ogni sua direttiva, ognuno aveva un suo mezzo. Mentre girava tra i membri del team ebbi modo di assaporarne lo sguardo, indirettamente, due grandi occhi algidi fissi come vetro, pallidi e perennemente spalancati, non li chiudeva mai. Sembrò impressionare gli astanti, mise loro paura. Eppure, quell’uomo in qualche modo ispirava fiducia, invidiai il modo in cui gestiva i propri sottoposti, con la massima efficienza, simile al metallo, prendeva frasi da internet ripetendole schematicamente in un moto continuo. Indottrinava i suoi interlocutori simile a un logo vivente. Gettai un’occhiata distratta alle moto e al furgone, affascinata dalla fermezza e dalla convinzione che trapelavano da quel giovane, la sua auto rossa del tutto priva di ammaccature mostrava un’ospite all’interno, accanto al posto di guida. Doveva essere la collaboratrice di turno del capo.

«E ricordate...» Concluse. «Non vi chiederei mai di fare una cosa, che non farei io stesso.»

Immediatamente tutti partirono, le videocamere in pugno pronti a filmare disastri e catastrofi.

Improvvisamente un lieve tocco sulla spalla mi fece sussultare. Voltandomi di scatto non trasalii, l’uomo mi stava al fianco.

«Buon pomeriggio, tu devi essere Elayne Snayfried dico bene?» Non attese che rispondessi. «Io sono Geoff Luwin, imprenditore della Video News.» Poi sfiorandomi delicatamente... «Che viso indimenticabile. Seguo sempre i notiziari.»

«Io al contrario non li guardo spesso.»

«Neanche quando compari in primo piano nei titoli di apertura? Alcuni dei miei dipendenti hanno avuto occasione di filmare parte della tua “storia”. Sai ci spiace non aver potuto immortalare la caduta di tua nonna dal terzo piano, eravamo lontani, ma abbiamo lo stesso avuto modo di mostrare al mondo il momento in cui è stata portata in ospedale.» Espose zelante senza gesticolare come fanno di solito quelli dello spettacolo.

«Mi scusi ma è un argomento ancora troppo doloroso per me.» Mentii, lui non fece una piega. La sua collaboratrice, una tipa afro dagli abiti trasandati stava riprendendo tutto. Assunsi un tono di cordoglio. «Non sono in vena di fare interviste.»

«Non oggi!» Convenne lui, feroce. «Questo è il mio numero.» Nel prendere il fogliettino dalle sue mani, il secondo che ricevevo in quella strana giornata, mi accorsi di come la sua socia reporter o quello che era non stesse filmando il freelancer, concentrandosi unicamente su di me, sembrava vagamente perplessa. «Ma se dovesse venirti un’idea del genere, sai a chi rivolgerti. Il nostro è un servizio di riprese professionali, offriamo contenuti reali, avvincenti e sempre di impatto. In tutta sincerità...» Insistette senza mollare la presa che esercitava su di me, invadente. «Oggi eravamo venuti qui a posta per te. Ma sembra che tu non abbia nient’altro da offrire, nulla di cocnreto mi spiego?» Lasciò trapelare una sfumatura di delusione nella voce.

«Tutti quanti?»

«Oh no, questa magnifica piazza è stato solo un punto di ritrovo. Noi operiamo a Christ Hanton, Neathburg e Cinderville.»

«Ma siamo a Luzburg.» Commentai, attenta a non far percepire la mia impazienza. I minuti passavano, ormai non avrei potuto confrontarmi col prete a lungo.

«Ora sicuramente avrai da fare, ma ricorda, siamo partiti come stringer notturni e guardaci ora.» sogghignò affabile. «Un servizio professionale di riprese giornalistiche.» Dall’auto rossa, l’unica rimasta, in quel momento provenne una voce disturbata, nella macchina doveva esserci uno scanner radio. «Edificio in fiamme!» Urlò Luwin alla sua assistente esortandola a salire in fretta dicendole di allacciarsi la cintura. «A rivederci signorina Snayfried.» Salutò educatamente, lo sguardo fisso su di me che mi divorava centimetro dopo centimetro. Dal cielo vidi un drone seguirli a breve distanza, un’altra auto sbucò da dietro il marciapiede scomparendo oltre la tetra piazza del mio piccolo paese mediocre. Dovevano occuparsi di situazioni estreme, momenti agghiaccianti, capii come il mio caso fosse per loro giunto alla conclusione. Mio padre era in galera neanche da un mese, il mio cognome significava ancora qualcosa. Pensai a escogitare un modo per farlo permanere sulle bocche di giornali e notiziari, il web si era già ritagliato uno spazio per me e la mia disgrazia.

Tutto era cominciato co nla tv, dei CD, internet. Ma fare presa sugli stereotipi non era bastato, per realizzare i miei piani avevo dovuto puntare tutto sulla trasgressione dei valori comuni. Qualunque cosa pur di sfuggire alla monotona ruota del tempo.


Senza indugiare oltre entrai in chiesa. Guardai i pallidi ceri posti ai lati della navata. Esclusa me in quel luogo non vi era anima viva. Pensai al mio triste paesino, funestato da innumerevoli tragedie, dovevo allontanarmi da quel luogo malsano. Mi passarono davanti i diciassette anni della mia vita, le perdite si erano perpetrate in un circolo vizioso. Prima che fosse calata la tenebra lo avrei spezzato.

Individuai il reverendo presso l’altare. Quel luogo disadorno non recava le effigi cattoliche. Fin da bambina mi era stato insegnato a credere che dio solo potesse provvedere alla mia salvezza e non i gesti di carità. Se solo non si fosse scaduti come sempre nell’ipocrisia...

 “Profanata” Mi definiva quell’uomo. Mi vide arrivare accogliendomi a braccia aperte, io non mi avvicinai troppo.

Si respirava un’aria viziata, l’incenso pervadeva ogni cosa.

«Io non sono matta.» Sussurrai al pastore.

«Nessuno l’ha mai pensato, mio povero virgulto, che assurdità, ti era stato consigliato l’analista svizzero per...»

«Ristabilire la mia sanità mentale?» Cinguettai mostrandomi fragile, remissiva.

«No, per aiutarti a ricordare.» Rispose il signor Pumpkinson. I miei modi lo impietosivano, riuscii a fare breccia nel suo animo, a scuotere alle fondamenta il suo credo.

«”La palude di Cocito, questo per i traditori dei parenti.» Nuovamente una delle sue reminiscenze dantesche. Trattenni a stento uno sbadiglio. Quanto avrei voluto dirgli in faccia che non c’è più spazio per la legge del contrappasso! E invece rimasi in silenzio, sorbendomi i suoi sermoni, guardandolo consumarsi alla stregua delle sue pallide candele. Non aveva finito. «Caina attende chi a vita ci spense“» Citò. Poi, cambiando improvvisamente discorso giunse al nostro punto di rottura. «Mia moglie sta dando la pappa a un bambino con delle ragazze nigeriane. Sappi che tiene molto ala tua incolumità, quella di donarti una nuova famiglia non è stata una scelta sofferta, ci fidiamo del giudizio di Brenda e del marito. Non hanno forse tirato su ben cinque figli, e mezza?»

 “Ipocrita.” Rammentai. Sapevo che alludeva a Denise, la cuginetta mezza creola dei figli del becchino.

«Ed Emily? Potremo vederci?» Supplicai pensando a quella creatura serafica, incompresa. L’uomo acconsentì senza esitare. Mi guardai i piedi in gesto di sottomissione, il pavimento più lustro delle mie scarpe. “Credulone.” Lo derisi nella mia testa, era bastata una bibbia per convincerlo della verità. Si doleva per la mia condizione. «La prego.» Implorai sommessamente.

«Ma certo piccola mia.» Assicôrò il reverendo.

 “Una squallida ragazzina di paese che sotto effetto di narcotici era stata abusata dal padre” Ecco la versione che preferivo, lasciai che gli altri continuassero a vedere questo in me.

«In questi giorni di neve facciamo presto a dimenticare, prendi questa mia ultima lezione ancella di dio: l’orrore che paralizza nasce dall’attesa, nella tempesta tra il lampo e il tuono.» Appena appena ragionevole faceva sfoggio delle sue ferree convinzioni.

Affrontai il prete luterano procedendo lungo la navata. Continuava a belare come se nulla fosse cambiato, ignaro delle mie vere intenzioni. Il detective Lownden lo aveva messo a parte di alcuni tasselli he avevo volutamente lasciato trapelare, ora ci scrutavamo, faccia a faccia. Io, l’indifesa, l’emarginata, la vittima del giorno, lui, l’uomo di Chiesa, punto di riferimento per anime scialbe prive di sostanza. Non avevo nulla contro i cristiani o gli altri culti religiosi, semplicemente avevo scoperto che era piacevole fare del male. E quanto è più efficace se mascherato da nobili intenzioni? Continuai a camminare consapevolmente sostenuta dal reverendo, mentre lui blaterava e blaterava. Non avevo forse visto con i miei stessi occhi quanto avesse agognato la pace dello spirito, la quale coincideva con l’esercizio del potere: quel barlume di potestà che ora stringeva fra le mani? Ero stata io a donarglielo. Nulla di personale, i sempliciotti come lui mi costringevano a mantenere una maschera di debolezza, ricordavano costantemente quell’epoca della mia esistenza per cui subdola avevo lottato lasciandomela alle spalle.


Non appena il detective Johannes Lownden si presentò nel luogo da me indicato, lo abbracciai senza esitazione, da povera ragazzina sensibile e smidollata.

Johannes mi seguì in una parte fatiscente del paese, dal dopoguerra le persone non vi mettevano piede spesso, erano quasi settant’anni che vi regnava il silenzio, il degrado vi faceva da padrone.

Affondò le mani in tasca, annichilito dall’atmosfera opprimente. Un cielo diafano pareva promettere una nevicata ancora peggiore.

Iniziammo a fiancheggiare facciate scolorite dal tempo, vetri vuoti simili a orbite umane, salimmo una scala antincendio abbastanza vecchia, finendo per camminare nel buio tenendoci per mano. Quante cose sarebbero potute accadere in quel buio, tra un’uscita e un androne, nella parte meno frequentata di tutto il paese. La zona ideale per segreti convegni e favori nascosti. Il detective si lasciò guidare come un agnellino, del tutto ignaro del cinismo che inebriava i miei pensieri.

Aveva l’impressione di fluttuare nel limbo tra menzogna e verità. «Elayne »senti, non hai anche tu la sensazione di essere seguita?»

«Assolutamente sì!» Esclamai con convinzione dandomi una rapida occhiata in giro, ci stavamo dirigendo a piedi verso la parte est di Luzburg, lontano dal centro e dalle case abitate. «Penso che qualcuno mi stesse seguendo, poco fa.» Bisbigliai mortificata.

Gli stretti spazi che dovevamo percorrere gli stavano mettendo pressione. Lui proseguì con la bile in gola. Con fare paranoide aveva ascoltato per tre mesi le mie menzogne ben architettate con un impercettibile fondo di verità, ora le sue congetture trovavano finalmente delle prove concrete. Solidale gli strinsi la mano.

Presto ci ritrovammo per un vicolo oscuro, uno dei tanti in quella parte semiabbandonata di Luzburg. Mestamente il detective proseguì nel suo cammino, attento a non scivolare sul ghiaccio. Una fine nebbia azzurrina stava rendendo l’ambiente più cupo.

Soffocai l’impulso di dirgli tutto riguardo al medico rovinandone la reputazione, quel gesto avrebbe implicato la mia colpevolezza. Feci tesoro della sua fiducia. “Abbiamo stretto un accordo nessuno lo sa.” Rimuginai vagamente incuriosita dalle parole del dottore.

Ci fermammo in uno spazio angusto: finestre piombate adornavano sinistramente una sorta di anfiteatro al chiuso, il detective contemplò l’assenza di sedili o locandine. Una luce fredda si riversava nel livore ispirato da quel luogo. Prima di varcare la soglia cedetti contro una parete, intirizzita. Il tempio non era solo una leggenda metropolitana, ma un luogo concreto, occulto. conoscevo le voci che circolavano riguardo quel posto. Riconobbi al dottore una certa destrezza nel maneggiare armi a doppio taglio. Dovevo scrollarmi dalla testa quel pensiero. Tornai a guardare Johannese nella sua ansia crescente.

«No no io non, non...» Mormorava inceppato senza ammettere di non poter andare avanti. «Possiamo fermarci un attimo?» Chiese alla fine.

«Ok.» Annuii timidamente.

«Perdona, altri grilli per la testa. Poco professionale da parte mia.» Feci una smorfia voltandomi dall’altra parte, non vedevo l’ora che la smettesse. Così ingenuo e ligio al dovere.

Accovacciata sul pavimento continuai a temporeggiare. Poco prima il detective era impallidito scrutando il casolare con dei simulacri neri a fissarci ai lati del cancello.

«Mi dispiace averti recato fastidio durante quegli “interrogatori”.» Ammise Lownden in tono secco.

«Va meglio?» Gli chiesi passando il fazzoletto sul suo viso sudaticcio. Io mi rimisi in piedi. «Sullo sgabello per cortesia.» Gli intimai adottando un tono diverso. Fraintendendo le mie parole andò a sedersi lontano da me.

«Elayne credi sia il posto giusto?» Domandò una volta seduto.

«Si vociferano strane storie di qui.» Confermai sommessamente. «Io ci sono già stata, ma avevo troppa paura per venirci di nuovo. Pensi di aver fatto bene a venire senza rinforzi?» Domandai. Lui fraintese completamente.

«E come avrei potuto? Forlmalmente il caso Snayfried è chiuso.» Sorrisi mascherando la vittoria che covava nel mio cuore.

«Il dottor De Santis non ha voluto fare quella cosa.» Pur di sfuggire alla noia cominciai ad arrampicarmi sugli specchi.

«Suggestione secondo chiunque o quasi a dirti la verità.» Ammise il poliziotto.

«La regressione?» Domandai.

«Non la reputa affidabile.» La voce incrinata mi si fece vicino, pronto a combattere. Perdenti, falliti, antisociali, persone vestite con neri mantelli e cappucci impenetrabili procedevano verso di noi da ogni direzione. Eravamo in trappola. Pensai alla moglie del becchino, nevrotica, come il detective.

Una figura in maschera mi si fece vicina, tenendo qualcosa fra le mani.

«Non ti avvicinare.» Intimò Johannes parandosi davanti al mio esile e fragile corpo. Ma quanto ero forte invece. Stanca di recitare la parte della giovane perseguitata diedi una svolta al corso di quel pomeriggio innevato. Con un gesto quasi impercettibile della mano lo scostai da me accettando il mio mantello. Voltandomi in direzione del detective mi rivelai in un ghigno sadico e malvagio.

«Credevi avessi mentito? In fondo lo credevi, facciamo così, metà di quello che ti ho detto non esiste, l’altra metà invece...»

«Io ti ho dato tutto me stesso, la disponibilità, la fiducia, l’affetto.»

«Parole senza senso.» Ribattei con garbo. «Considerati fortunato a conoscere la cruda verità. È un privilegio concesso soltanto a pochi.»

Orripilato dischiuse le labbra senza proferire alcunché.

«Sii onorato.» Soggiunsi languidamente accarezzandogli il viso. «Se sei qui è perché sono stata io a volerlo.»

Volteggiai davanti a lui rispecchiandomi nel vetro di una vecchia cabina telefonica in disuso: i lisci capelli castano chiaro che mi fluttuavano sciolti attorno al viso roseo e trionfante, com’ero perfetta. Sospirai di piacere rimirando la confusione, lo stordimento che ne increspava le fattezze.

Esile e sinuosa continuavo a contemplare quella figura che mi sorrideva dal vetro. Distolsi lo sguardo dal mio tetro riflesso, soffermandomi sul poliziotto.

«E ora cosa volete fare, sacrificarmi?» Il detective aveva recuperato un guizzo di vita.

«Non essere melodrammatico. Uno con le tue doti ci sarebbe molto utile, unisciti a noi e, le tue insistenze verranno perdonate. Ho visto il modo in cui mi guardi.» Lo stuzzicai con una movenza laida e provocante. «Anche tu eri stanco del pane quotidiano, altrimenti perché mi avresti tanto dato ascolto?» Proseguii con un tocco di nonchalance.

Il suo attaccamento per me stava prendendo la forma di una specie di ossessione, che peccato, per una mente così labile. Ero giunta a manovrare perfino i suoi gesti. «Ti porti una mano alla croce?» Chiesi in tono di sfida. «Ma non c’è nulla da scongiurare. Il male è nelle persone.» Lo illuminai. «Qui ti stiamo offrendo qualcosa di meglio di una misera inutile vita, ti stiamo servendo una vocazione.» Alle mie parole il detective strinse i denti, riconoscendo involontariamente che avevo ragione. «Hai goduto nel fare certi sogni, credimi lo so. Ora possono divenire realtà, basta che tu lo voglia. Tendi la mano e prendi ciò che ti spetta.» Ringhiai.

«E se andassi immediatamente dai miei colleghi? E se raccontassi loro tutto? Tutto quanto anche di te.»

 “Soprattutto di me.” Pensai disgustata. «In tal caso faresti meglio a scavarti la fossa, non c’è niente capace di fermarci, niente!» Sibilai schernendolo senza rimorso. Johannes si bloccò, annientato dal mio sguardo strafottente. «Chi ti crederà detective Lownden? È la tua parola contro la mia, la piccola dolce Elayne, così pia e devota, che non fa nulla di male e non dice bugie.» Feci il verso alle parole del reverendo Pumpkinson.

«Ma quello che proponi è blasfemo, indicibile!» Stava perdendo il controllo, la voce gli tremava. Attorno a noi vidi stringersi i ranghi. Ancora non aveva capito in che genere di pericolo si fosse cacciato?


«In un modo o nell’altro finirà nel sangue. Perciò accetta.» Lo esortai mettendomi in punta di piedi, il mio alito che si spandeva in tenue vapore nella spessa aria invernale. «Puoi arrancare col gregge o ergerti sopra di esso, la scelta è tua.» Sentenziai accettando da un uomo un corto pugnale. Alcuni fecero largo lasciandomi avanzare verso il luogo del sacrificio, tra le mani mi ritrovai un gattino indifeso, la mia eccitazione schizzò alle stelle.

«Ferma ferma cosa vuoi fare?»

«Non lo vedi?» Chiesi distrattamente, ero stanca di dover badare a lui come una babysitter. “Povero illuso.” Pensai accostando la lama al collo dell’animaletto.

«Non sei costretta a farlo!» Sbraitò il detective recuperando un minimo di lucidità, ma già intorno stava prendendo forma una lugubre litania.

 “Quanto rumore.” Meditai, sollevata dal fatto che lo sbirro avesse compreso di tacere. Immobile osservava, incapace di accettare che quanto stava vedendo era reale. «Vuoi farlo tu?» Chiesi con una voce tanto suadente da privarlo completamente del respiro, un tono carico di promesse e di unioni innominabili. «Hai quasi creduto che fosse tutto una gigantesca bugia, prendi tutto questo come un’azione di conforto, hai sempre avuto ragione. Le sette esistono, così come i rituali, i sacrifici, la fornicazione e il resto. Solo su una cosa ho mentito: non uccidiamo i neonati, noi li convertiamo.» Spinsi la lama a fondo nella carne soffocando lo stridulo lamento emesso dalla bestiolina. Esanime cadde senza vita ai miei piedi, il sangue colato fin sui bordi della ciotola, una nera palla di pelo, scarna e inutile. «Se ci tradirai noi lo sapremo.» Ribadii con ferocia, mantenendo stavolta un timbro più basso, inciivo, il messaggio avrebbe dovuto penetrare nella sua testa, fossilizzarsi, come non si sarebbe sognato di andare in giro senza vestiti, così non avrebbe spifferato nulla a nessuno. Forse i suoi nervi cedettero, forse credeva solo di potermi salvare, o forse, non attendeva altro se non il momento per dire le poche sillabe fatali. Gustando il suono di quelle parole tornai a rimirare lo scorcio innevato. E mentre Johannes Lownden si arrendeva inginocchiandosi al cospetto dei Martelli Dell’Eden, sforzandosi di restare lucido di fronte alla nostra masnada di diavoli, lo udii scandire distintamente, di nuovo, con più fermezza: «Lo voglio.» «Che cosa ti aspettavi, il Diavolo?» Chiesi azzardando una piroetta al centro del cerchio di volti in attesa. Il mantello che si apriva come un paio di scure ali di corvo a riempire la scena. «Ora comprendi: io sto con gli acidi, noi non abbiamo bisogno di credere, ma di agire.» 

«Quindi voi cosa siete, eh? Un branco di nullafacenti senza scopo e senza dio?» La voce gli tremava, ancora.

«Risparmia il fiato.» Un ragazzo asiatico gli sferrò un pugno nel petto.

«Almeno sappiamo come divertirci.» Rispose una donna mascherata poco lontano.

«Al contrario di te siamo liberi.» Disse un uomo toccandogli il faccino, così glabro e corrucciato. Il detective aveva forse dieci o dodici anni più di me, se in genere non li dimostrava, quel giorno rimase proprio brutto da guardare, gli accoliti tentarono di cancellargli il cipiglio dal volto ma invano.

«Piantatela di parlare a vanvera, fate silenzio.» Ordinai loro tornando alla mia pacatezza consueta.

Condussero un prigioniero all’esterno mentre ci dirigevamo nel mezzo di una piccola radura poco lontano dagli alberi. Il cielo assumeva una sfumatura biancastra, cadaverica. In silenzio avanzammo sulla neve. Trascinammo il detective con noi.

Osservai quella forma anonima venire legata a un palo, sarebbe stato piacevole udirne le grida. Il prigioniero faceva parte di una vera setta satanica, ma non dissi nulla a Johannes, evitandogli di fare un gesto stupido.

Il prigioniero venne percosso a volontà. Gli incisero una croce rovesciata sul volto, intonando la lugubre litania imparata dai veri culti satanici. Quella creatura non più umana perché ridotta a un rottame venne condotta al rogo. Lo imbavagliarono affinché non potesse urlare.

«Vedi Johannes? Non c’è nessun rito. Loro non invocano un demone, solo me.»

Guardando quell’uomo bruciare mi venne in mente quella stupida frase della madre del becchino «Oh cara, volevo fare l’orzo.»

«Chi ha scritto queste poesie?» Avevo chiesto nascondendo in seno il pentacolo.

«L’unica amica che mia nipote abbia mai avuto.» Riaprii le palpebre disgustata dal fetore di morte, l’immagine di Yvonne che si dileguava frettolosamente dai miei ricordi.

Come aveva continuato la nonna? «Mia nuora sai è talmente precisa da rivelarsi maldestra.» Si era giustificata quella imbecille vittima di demenza senile.

«Elayne non costringermi.» Implorò Johannes allontanando l’accendino da un fiammifero pronto per abbagliarci nella morte del giorno.

«Fallo!» Gridai, finalmente libera di sfoggiare chi fossi davvero.

«Tutto questo non è reale.» Vociò Johannes smettendo di fare resistenza e accasciandosi a peso morto sui due che lo sostenevano bloccandone i movimenti.

«Abbiamo già infiltrati nella polizia, così come nella comunità. Mi fai sembrare tutto così banale.» Gli confidai con disprezzo. Sai cosa non è banale? Questo.» A un mio segnale versarono della benzina e una bottiglia di liquore sul malcapitato suscitandone le grida. Gli accoliti appiccarono le fiamme mentre il prigioniero si dimenava sul palo. «Il pastore è solo un codardo pusillanime. Forse ora però servirebbe davvero un po’ della sua acqua benedetta.» Mostrai la piccola pira funebre con sarcasmo.

Osservai quell’individuo senza nome dimenarsi impotente. Ne udimmo i lamenti, la carne lambita dalle fiamme, straziata nel castigo del fuoco. Infilzando il cadavere del gattino lo accostai al rogo funebre. L’uomo accanto arse in silenzio.

alcuni nel gruppo si ritrassero, non io. Mi divertiva spostare lo sguardo dalla sofferenza del moribondo a quella dipinta sul viso di Johannes. Non provai la benché minima empatia. Osservai la pelle annerire divorata dalle fiamme. E mentre il palo crepitava mi avvicinai al poliziotto abbattuto. «Cercavi il Tempio? Non è qui. Non siamo noi i satanisti per cui ti eri dato tanto pensiero. Resta con noi e ti condurremo al Templio A Più Culti, è ovunque, ma Christ Hanton e Cinderville ne sono il fulcro, Shyville è la sua casa.»

Valutai con gioia il nostro operato: mantenere gli abitanti in apprensione, diffondere il panico. Avremmo scatenato un po’ di violenza tanto per cambiare. Alla fine di tutto quel giro di menzogne mi ero trovata a guidare un insieme di anarchici. Avremmo messo le altre sette in cattiva luce, rrovesciando su di loro i nostri meriti. Scrutai nelle fiamme. Se atti del genere si fossero rivelati il pane quotidiano,per me sarebbe stata la fine. Le vere sette, per lo più innoque, si sarebbero ritratte dinnanzi a noi, al nostro potere.

E da qualche parte dentro di me si fece strada un antico ricordo: il mio criceto sepolto vivo, nel grigiore primaverile.

«Immolato per la causa.» Rilevai. «A ogni tuo rifiuto qualcun altro morirà. Non è forse questo, il più sublime tra i ricatti?» Sorrisi deliziata di quella mia trovata geniale. E mentre il biancore del cielo cedeva le redini a una notte selvaggia, feci inginocchiare Johannes passandogli attorno al collo la nera catena del pentacolo. Il buio risponde al buio, ma solo una piccola luce è in grado di mostrare la tenebra più grande.


© 2020 All rights reserved. | KEIM MATTEO CAMARDA

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Hollowness - Papaveri Di Sangue

Si tratta del secondo libro in pubblicazione di Keim Matteo Camarda, autore noto per la raccolta di racconti Oscure Vanità.

Il romanzo narra le vicende di persone alienate in un mondo cinico e tetro, in cui ben poco spazio viene riservato all'amore.

Trama

23 Settembre 2018: Yvonne Lermié, aspirante influencer e scrittrice, segretamente eroinomane, si trova su un treno affranta per il fiasco del suo debutto in società, quando viene contattata da Thew Litwick, ambiguo YouTuber e giovane istrione che le offre un riscatto in cambio del suo tempo. In fuga dalla noia Thew viene iniziato a una serie di cerimonie oscure assecondando l’attrazione del male. Yvonne rifugge la stampa e i media, interessati all’omicidio di sua sorella. Volonté, la fidanzata torna dalla Bretagna dopo nove anni con tutta la sua famiglia, i superstiziosi figli del becchino.

I conflitti di potere, gli esperimenti sociologici, la stregoneria, gli scontri di mafia, le sette sataniche, la continua ricerca di un’affermazione spingeranno tutti i protagonisti, amorali e malvagi verso il baratro, mentre Yvonne Lermié dà inizio alla propria ascesa. Un cammino spirituale, esoterico in un autunno languido e macabro per un’atmosfera fiabesca, ricco di colpi di scena e riflessioni forse capaci di illuminare la nostra epoca.


Keim Matteo Camarda nasce a Como il 9 Novembre 1997 da padre siciliano e madre singhalese. Noto in ambito letterario per le poesie pubblicate sulla prestigiosa rivista Nova, è testimonial italiano per importanti servizi come Bitrix24, Noxinfluencer.com, in Italia affianca CTL Editore Livorno, con cui ha già pubblicato la raccolta di racconti d’esordio Oscure Vanità. Dal 2015 milita in memoria di Karen Blixen e Penny Dreadful. Attualmente studia Mediazione Interlinguistica presso l’Insubria.

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